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Amiamo e difendiamo la vita!

Di Antonio Spianato

(Seminarista V Anno).

Convegno «Eutanasia e suicidio assistito. Quale dignità della morte e del morire?»



«La vita non sempre va conservata». È questa l’espressione che potrebbe sintetizzare il grido di tanti uomini di fronte alle innumerevoli piaghe della sofferenza. A farsi portavoce di questo pensiero è Lucio Anneo Seneca, nelle Epistulae morales ad Lucilium, e la sua voce riecheggia, forse in maniera ancor più provocatoria e atroce, anche nei nostri giorni: sono utile alla società anche se sono immobilizzato su un letto di ospedale? È giusto che io continui a vivere in un orrendo dolore? Non sono forse libero di decidere della mia vita? Che senso ha barcamenarmi nei meandri dell’esistenza umana quando la mia consapevolezza sembra essere solo un’utopia? La vita è mia! Ne faccio quello che voglio! E lo Stato me lo deve permettere!

Di fronte a tali interrogativi un silenzio assordante chiede di essere il protagonista. Ma se è vero e giusto che sia così, è altrettanto vero che l’uomo non può tacere, la vita gli appartiene costitutivamente! È un suo diritto! Il processo della sua esistenza non può essere così tristemente interrotto!

Forse non stiamo parlando di amore? L’urlo si eleva! Sì, anche nella sofferenza, il cuore grida a squarciagola: vuole essere amato! Vuole amare!

È proprio di fronte a questo proclama che noi seminaristi ci siamo voluti porre partecipando lo scorso 27 settembre al convegno «Eutanasia e suicidio assistito. Quale dignità della morte e del morire?», organizzato dalla Consulta Diocesana delle Aggregazioni Laicali e dal Movimento per la Vita, nell’ Auditorium della parrocchia potentina di S. Cecilia.

Dopo i saluti di Giancarlo Grano, Segretario della Consulta Diocesana del Laicato, a dare l’avvio al Convegno è stato mons. Salvatore Ligorio, Arcivescovo metropolita di Potenza – Muro Lucano – Marsico Nuovo, il quale, dopo un breve momento di preghiera, ha sottolineato la necessità di «una risposta della cultura del cristianesimo» agli interrogativi etici che la cronaca ci propone, al fine di maturare una «maggiore consapevolezza», in modo da essere «stimolo per tenere accesa la speranza della nostra fede che illumini soprattutto il grande dono della vita». Tale risposta rientra a pieno titolo nella missione della Chiesa, quale «Chiesa in uscita», secondo l’espressione del Santo Padre, chiamata ad annunciare la libertà cristiana come «autoconsapevolezza e responsabilità». Richiamando papa Francesco, infine, il vescovo ha messo in risalto la sempre costante «tentazione di usare la medicina per assecondare una possibile volontà di morte per l’uomo» e per questo motivo occorre essere «testimoni» e «martiri» della verità.

Moderatore dell’incontro è stato Oreste Lopomo, Capo Redattore Rai Basilicata, che ha messo in risalto l’attualità del tema, visto il comunicato stampa della Corte Costituzionale del 25 settembre 2019, che recita: «la Corte ha ritenuto non punibile ai sensi dell’articolo 580 del codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli».

La sentenza, sicuramente provocata dal caso Dj Fabo, che, come tutti ricorderemo, è stato accompagnato dal radicale Marco Cappato in una clinica svizzera, dove ha subito il suicidio assistito, di fatto “legalizza” il suicidio assistito. Per cui, domanda Lopomo, possiamo parlare solo di “sentenza tecnica” che colmi un “vuoto legislativo”?

A queste domande risponde il magistrato Domenico Airoma, Vicepresidente del Centro Studi “Rosario Livatino”, che, con grande efficacia espressiva e contenutistica, sottolinea come la sentenza, successiva all’ordinanza n. 207 del 2018 emanata dalla stessa Corte, «non è un fulmine a ciel sereno», dal momento che interviene nella lunga vicenda di Dj Fabo e Cappato, definita dal magistrato napoletano come un «caso costruito» a tavolino e utilizzato strumentalmente dall’esponente radicale per alzare il tono del dibattito, come del resto dimostra la sua autodenuncia. A questo punto, sarebbe più giusto forse parlare di “scorciatoia giudiziaria”.

In realtà già la legge n. 219 del 2017 sulle DAT (Disposizioni Anticipate di Trattamento) prevede la possibilità di disporre del tempo in cui non si è capaci di autodeterminarsi: posso decidere se sottopormi o meno ad alcuni trattamenti sanitari, tra cui la nutrizione e l'idratazione artificiali, cioè posso disporre autonomamente della mia stessa vita.

Questa “autodeterminazione alla morte”, però, sottolinea il procuratore Airoma, non può diventare un diritto. E come non può diventare un diritto dare uno schiaffo ad una persona, come non si può essere tutelati dallo Stato quando si commette un crimine, così non può essere garantito, difeso, protetto chi attenta alla vita personale o altrui. L’«omicidio del consenziente», anche nel caso di “incoscienza” o di dolore del paziente, non può essere allora considerato un aiuto che si avvale del falso pretesto della compassione.

Inoltre, domanda il Magistrato, chi è in una situazione estrema di dolore ha la “capacità” di «prendere decisioni libere e consapevoli»?

In fin dei conti, la sentenza della Corte non sembra introdurre il diritto al suicidio assistito, ma solamente la “non punibilità”, che, sotto mentite spoglie, nasconde il concetto di “meritevole di tutela”: chi aiuta al suicidio non deve essere punito, ma tutelato!

E se anche la Corte non ha il potere di legiferare, in realtà pone i paletti al Parlamento per far diventare di fatto “diritto” il suicidio assistito.

Concludendo il suo intervento, il magistrato Airoma invita ad una «seria battaglia culturale, in cui gli argomenti da spendere sono innanzitutto di ragione naturale, poi viene la fede! Come uomini dobbiamo argomentare e combattere!».

Successivamente è intervenuto il dott. Marcello Ricciuti, medico palliativista e direttore responsabile dell’Hospice dell'Ospedale San Carlo di Potenza, nonché presidente del Movimento per la Vita.

Evidenziando inizialmente come nei Paesi del nord Europa una delle prime cause di morte sia proprio l’eutanasia, in ragione del diritto “ottenuto”, il medico ha offerto il suo personale contributo riguardo alle cure palliative, che «si occupano della cura del dolore per ovviare ad una morte atroce» in caso di malattie giunte alle fasi avanzate e terminali e sono di ausilio all’azione principale di professionisti e volontari, che offrono supporto psicologico, spirituale, sociale.

Ha così testimoniato come nella sua esperienza potentina, su migliaia di pazienti terminali, mai nessuno avanza una vera richiesta di morte, ma la maggior parte di essi chiede aiuto, sostegno e accompagnamento da tutti i punti di vista: la vera richiesta non è morire, ma continuare a vivere!

L’ultimo importante contributo è stato la relazione di Gian Luigi Gigli, ordinario di Neurologia all’Università di Udine, deputato della XVII Legislatura, già Presidente Mondiale dei Medici Cattolici e del Movimento Italiano per la Vita, che ha messo in luce il rischio di una erronea interpretazione del concetto di “autodeterminazione” già espresso dalla legge sulle DAT. Infatti, se uno è libero di morire atrocemente “in ospedale”, sospendendo la nutrizione e l’idratazione, perché allora non morire più “beatamente”?

È proprio di fronte a questo controsenso interno della legge che la Corte ha posto i “nuovi paletti”.

Non è vero che qui si fa strada una falsa misericordia, una subdola e ingannatrice pietà? Chi si sente di peso è incoraggiato a uscire di scena.

Inoltre il discorso si complica quando si prende in considerazione l’aspetto economico-amministrativo: non è forse più conveniente alla società un risparmio di risorse che possono essere investite altrimenti?

L’utilitarismo la fa da padrone! La vita è ridotta ad una “macchina operativa” in balia dell’emozione del momento o della decisione di qualcun altro!

Cosa fare allora? Il neurologo evidenzia come siamo ormai posti di fronte ad un «bivio di civiltà e dobbiamo scegliere se proclamare la resa a questa corrente culturale o organizzarci mentalmente e giuridicamente per una “resistenza”. Ma dobbiamo essere consapevoli che, se si sceglie la resistenza, occorre ripartire da una “operazione-verità”!».

A tal riguardo, con tono amareggiato, ha espresso tutta la sua «sofferenza per l’insipienza, il pressapochismo, e anche l’incapacità di ragionare che tanta gente possiede».

È necessaria un’autocritica per evitare di «alzare la bandiera della resa».

«Le battaglie possono anche essere perse», ha concluso, «ma la cosa peggiore è perderle senza combattere!» e occorre lottare anche per evitare che il popolo di Dio possa confondere ciò che è legale con ciò che è moralmente lecito.

Ciò che è moralmente illecito va dichiarato! Soprattutto da chi riveste posizioni di responsabilità all’interno della stessa Chiesa.

Occorre allora informarsi per difendere la vita!

«Difendere e promuovere, venerare e amare la vita è un compito che Dio affida a ogni uomo, chiamandolo, come sua palpitante immagine, a partecipare alla signoria che Egli ha sul mondo» (EV 42).

«L'intera società deve rispettare, difendere e promuovere la dignità di ogni persona umana, in ogni momento e condizione della sua vita» (EV 81).

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